Noi, una comunità di destino
di Antonio Errico –
da Nuovo Quotidiano di Puglia, domenica 22 marzo 2020
Si chiama Jim Lovell. La notte del 13 aprile del 1970, a bordo dell’Apollo 13, dal mondo della Luna disse così: Houston, abbiamo avuto un problema. Era esploso un serbatoio di ossigeno danneggiandone un altro. Quella notte Jim Lovell aveva quarantadue anni. Adesso ne ha novantadue.
Emilio Cozzi per il “Corriere della sera”, ricorda di quando dall’Apollo 8 vide la Terra per la prima volta. Un pianeta piccolissimo, che spariva dietro a un dito appoggiato al finestrino. Tutto quello che conosceva era dietro il suo dito, dice.
Milioni di persone, montagne, foreste. Tutto dietro il suo dito. Dice che è stato in quel momento che si è reso conto di quanto il genere umano sia fortunato a vivere su un pianeta come la Terra, che ci dà aria, acqua e tutto quello di cui abbiamo bisogno per sopravvivere.
Nessuno sa se negli sconfinati universi esista un luogo come la Terra e creature fortunate di vivere in quel luogo. Nessuno è riuscito a saperlo fino ad ora.
Quello che possiamo e dobbiamo sapere noi è che non sempre si ha consapevolezza della fortuna, per cui questa Terra non di rado la maltrattiamo, non di rado diamo per scontato che debba darci tutto senza che noi le si dia niente, non di rado deturpiamo la sua bellezza.
L’attenzione che a questi argomenti si rivolge negli ultimi tempi, che senza alcun dubbio ha una straordinaria importanza, forse però non basta.
Forse occorrerebbe prendere coscienza civile, sociale, e quindi culturale, di alcune posizioni: per esempio di quelle assunte con forza da Edgar Morin.
La più forte tra le forti posizioni di Morin, probabilmente è quella che si sintetizza nel concetto di umanità come destino planetario che sostanzialmente riguarda la relazione inevitabile ed essenziale fra l’individuo e la specie umana nella sua totalità.
Per cui, in sostanza, si pone l’urgenza dello sviluppo di una coscienza comune e di una solidarietà planetaria del genere umano, perché la condizione dell’umano non è più soltanto una dimensione ideale ma si è trasformata in comunità di destino.
Solo la coscienza di questa comunità di destino può consentite all’umanità di realizzare una comunità di vita, che significa, molto semplicemente, acquisire conoscenza di quello che deve essere fatto da ciascuno per tutti, da tutti per ciascuno, da soli e con gli altri, per se stessi e per gli altri. Con le competenze, le arti, le scienze, che si hanno; con le esperienze e le passioni che si hanno. Perché non c’è più nulla che si faccia per se stessi che direttamente o indirettamente non riguardi anche gli altri; non c’è più nulla che riguardi una comunità, la più piccola comunità, che non coinvolga con i suoi effetti il pianeta per intero.
Dobbiamo imparare a “esserci” sul pianeta, dice Morin. Imparare a vivere, convivere, condividere, comunicare, essere in comunione.
L’identità dell’uomo non può essere che terrestre.
Certo, ci sono tante cose che non vanno da queste parti, e tutto quello che non va dev’essere attribuito alla circostanza particolare, che spesso viene ritenuta inevitabile e adottata come giustificazione, che, alla fine dei conti, siamo soltanto uomini.
È una cosa che ha già detto, in modo proverbiale, un po’ di tempo fa, un tale di nome Terenzio nel “Punitore di se stesso”.
C’è Menedemo che sta lavorando il suo campo. Cremete gli si avvicina e gli chiede com’è che alla sua età e con tutti i servi che ha, se ne sta a spaccarsi la schiena nel campo. Menedemo gli risponde di farsi i fatti suoi, per cui Cremete si giustifica dicendo homosum, nihil humani a mealienum puto.
Morin, allora, sostiene che per compensare la giustificazione, si rivela necessaria, indispensabile, una politica dell’uomo, una politica di civiltà, una riforma del pensiero, un’antropoetica, un vero umanesimo, e, forse soprattutto, la coscienza di una Terra-Patria. Che significa, anche in questo caso molto semplicemente, comprendere veramente che si appartiene ai deserti, ai mari, a tutto l’esistente, non al proprio angolo di mondo. Poi significa anche comprendere veramente che un altro posto dove andarsene non c’è e non ci potrà essere mai. Prendiamone atto.
Facciamocene una ragione. Una bella storia è quella che raccontano le generazioni che stanno venendo, il loro prendersi a cuore le sorti della Terra. Abbiamo fiducia di loro. Ci affidiamo. Ci fidiamo. Siamo convinti che in qualche modo riusciranno a salvare questa cosa piccola piccola che Jim Lovell poteva far sparire dietro un dito appoggiato al finestrino.
D’altra parte lo aveva detto anche Pirandello: non è che “un’invisibile trottolina, cui fa da sferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo”. Anche se i pianeti vaganti per l’infinito sono tanti, un altro su cui poterci rifugiare non esiste. Ma se pure esistesse, se pure fosse perfetto, non potrà mai essere più bello di questo mondo così imperfetto.
Nessuna civiltà potrà mai essere più intelligente di questa stupida civiltà. Nessuna vita senza affanno potrà essere così affascinante di questa nostra vita tanto affannata. In questo mondo imperfetto, stupido, a volte crudele, ci sono creature che ad ogni istante fanno sforzi incredibili, indicibili, per renderlo migliore, per fare il dono ai suoi abitanti di un po’ di serenità. Allora, in fondo, stiamo bene qui dove stiamo, perché abbiamo la speranza di poterci stare meglio.
Antonio Errico
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