di Marcello Buttazzo –

Noi umani non siamo isole staccate, non siamo contrade emarginate, non siamo soggetti scollegati nel grande e fascinoso libro della Natura. Noi umani non siamo individui dotati d’autosufficienza assoluta, ma respiriamo questo tempo e traversiamo questa Terra di asperità e di piccole gioie con una vivida consapevolezza: oltre ad essere Homo sapiens sapiens siamo “Uomo sociale”. Prosperiamo in un intricato intreccio fitto di relazioni, in vicende intimamente concatenate di eventi, in una grammatica di storie semplici e complesse, che tutte insieme (nessuna esclusa) definiscono quell’assunto avviluppato e paradigmatico denominato Vita. La vita di relazione è un ineludibile gioco per costruire più intricati castelli sociali. Nessuno può affrontare le alterne e incerte vicende dell’esistenza sfoderando e sventagliando un Io “autoreferenziale” e “solipsistico”, ma deve entrare necessariamente in un realistico contatto di rapporti con l’altro da sé. Ciascuno di noi ha bisogno di amare a fondo se stesso e di produrre una rete di relazioni d’amore con l’altro da sé. Per non morire, per non sfiorire. Per cercare di perpetrare la specie, l’evoluzione biologica ha “inventato” lo strumento dell’”immortalità del germe”, cioè delle cellule della linea germinale. La cellula uovo e lo spermatozoo nell’uomo sono potenziali doti d’eternità. L’uomo sociale, grazie al medium della bellezza, dell’amore, della condivisione, della compartecipazione, del dono, ha la possibilità di far progredire la vita in un continuum di speranza, di attesa. “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Per l’innanzi, è necessario, davvero fondamentale, dapprima riconoscere il proprio sé, analizzare, scomporre, ricomporre i propri vissuti in un ordito ben definito, capace di compattare la propria identità, sempre in continuo e dinamico divenire. Il proprio sé ha bisogno di perenne nutrimento, di linfa vitale, di essere visto, identificato dagli altri. Il proprio sé è un pozzo di calie preziose, da cui pescare perpetuamente ciò che naviga nel sommerso e nel manifesto. Il proprio sé è un giacimento esplorato e inesplorato, cui attingere per qualsiasi relazione d’umano sentire. Dobbiamo necessariamente amare prima noi stessi, non tanto per sano egoismo, quanto soprattutto perché da una assunzione di consapevolezza si possono spiegare le vele per il viaggio intrigante di donare amore agli altri. L’altro deve essere amato con disinteresse, come il corrispettivo diverso e altro del nostro sé. L’altro ci consente di conoscere meglio noi stessi. Gli universi e le pagine che schiudono i nostri simili sono talmente multipolari e variegate, che solo da una conoscenza intima dell’altro si può amare intensamente il proprio sé. Noi umani siamo nati non per costruire isole, ma per generare ponti di conoscenza, per far germogliare virgulti di socialità, per far sbocciare rose fanciulle. “Ama il prossimo tuo come te stesso”, per edificare davvero una vita densa di affettività, di valore imperituro, d’una etica sostenibile e antropologicamente vitale. Ci si può chiedere anche con un passaggio successivo o, se si vuole, preliminare: “Ma io come mi amo?” Ci si può amare in vario modo. Ci si può amare nella gioia sfrenata, nella pienezza. Epperò, si possono provare piccoli moti d’amore anche nella mancanza, sperimentando il senso del limite. Mi viene in mente la seguente poesia di Dino Campana:

Pace non cerco, guerra non sopporto
Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
Pieno di canti soffocati. Agogno
La nebbia e il silenzio in un gran porto.
In un gran porto pieno di vele lievi
Pronte a salpare per l’orizzonte azzurro
Dolci ondulando, mentre che il sussurro
Del vento passa con accordi brevi.
E quegli accordi il vento se li porta
Lontani sopra il mare sconosciuto.
Sogno. La vita è triste ed io son solo.
O quando o quando in un mattino ardente
L’anima mia si sveglierà nel sole
Nel sole eterno, libera e fremente.

Amare, quando si è inseriti in un circuito fecondo di rapporti, è l’esercizio d’esperanto più benaccetto e benedetto. Ma si può amare o, quantomeno, desiderare d’amare, anche quando, per una serie di precipue evenienze, si è in solitudine. Si può sempre sperare in un giorno migliore, in un mattino d’aurora, in una inedita e abbarbagliante beltà, quando l’anima di ciascuno di noi si sveglierà nel sole. Nel sole eterno, libera e fremente.

Marcello Buttazzo