di Marcello Buttazzo

Alessandro Di Battista, il “Che Guevara” del povero tempo moderno, era stato richiamato dai vertici del Movimento 5 Stelle per risollevare le sorti del partito, in caduta lenta e progressiva al cospetto della esuberanza sovranista di Salvini. Però a un mese dal ritorno in Italia, dopo le sue scorrerie “culturali” nella giungla sudamericana, l’acclamato tribuno, pugnace e loquace condottiero pentastellato, pare che non stia brillando affatto nei sondaggi. S’è oscurata una stella. I grillini continuano a perdere consensi nei confronti della Lega, nonostante le apparizioni bulimiche del Dibba in tutte le trasmissioni televisive. Lui, con piglio zapatista ed “enciclopedico”, disquisisce di tutto, proferisce giudizi apodittici su tutti, manda spesso i “nemici” a quel paese, con un eloquio da bar. L’ex deputato, libero ora da compiti istituzionali, si dice che sia il nuovo profeta del “Vaffa”, bagaglio di enorme rilevanza etica, ereditato dal Grillo sparlante. Ha un linguaggio aspro, ruvido, contro gli avversari, l’indomito Dibba. Ai giornalisti dà del tu (“perché siamo colleghi, anche io sono un reporter”), definendoli senza perifrasi alcuna “prostitute”. Ma, si sa, la popolarità politica passa. Deve stare accorto a maneggiare con maggiore cura e rispetto la semantica, il Dibba. Magari impiegare un linguaggio più ricco e forbito, anche se desidera continuare a pubblicare i suoi capolavori per Mondadori. E anche se dovesse tornare a fare l’animatore nei villaggi vacanze (come alcuni auspicano) dovrebbe abituarsi ad un lessico più contegnoso. 

                             Marcello Buttazzo