di Paolo Vincenti –

Referendus-referenda-referendum.

“Vuoi che alla Regione siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?” E’ questa la domanda posta dal Referendum del 26 ottobre sull’autonomia di Lombardia e Veneto.  Una domanda facile facile, no?  Di questo passo, si potrà anche chiedere agli elettori: “vuoi una politica più efficiente per il Paese?”, oppure “vuoi una classe politica che non rubi?”. E perché non anche: “vuoi la pace nel mondo?”  Gesù, Giuseppe e Maria!  Sono sempre stato contrario allo strumento referendario, specie se questo è inutile e dannoso come nel caso del referendum di domenica.  Ho scritto più volte che la classe politica dovrebbe essere in grado di fare delle scelte, prendere delle decisioni, dato l’alto compito cui è chiamata, senza interpellare gli elettori, almeno senza farlo ad ogni piè sospinto. I politici sono pagati per governare il nostro Paese, il popolo conferisce loro un mandato sulla base del quale essi dirigono l’azienda Italia, ne sono il legale rappresentante o l’amministratore delegato che dir si voglia.  I governanti ci rappresentano, agiscono in nome e per conto degli elettori che li hanno votati. Ricorrere allo strumento referendario dovrebbe essere l’extrema ratio, quando si tratti di questioni davvero importanti, come, che ne so, Monarchia o Repubblica, entrare o uscire dall’Europa, trasferire la capitale d’Italia a Cosenza, oscurare “Uomini e donne” di Maria De Filippi o “Pomeriggio Cinque” di Barbara D’Urso, estradare pericolosi sovversivi come Paolo Barnard, Klaus Davi o Diego Fusaro. La nostra Costituzione è già una costituzione regionalista e federalista, in seguito al referendum del 2001 sulla modifica del Titolo V della Seconda parte, voluto dal Governo Berlusconi (proprio Silvio Berlusconi, l’evasore seriale, quello degli infiniti processi e delle infinite condanne). L’allora Governo Berlusconi infatti, ostaggio della Lega secessionista, volle dare un forte imprinting alla Magna Carta per realizzare uno Stato federale indorando la pillola a Bossi e company.  I referendum costano e non raggiungono quasi mai il quorum. Prendiamo il referendum del 1997: ben sei quesiti dei quali nessuno raggiunse il quorum; obiezione di coscienza, abolizione dell’ordine dei giornalisti, progressione delle carriere dei magistrati, erano i più importanti; ma si può chiedere agli elettori se i cacciatori possono accedere nei fondi privati o se i magistrati possono prendere altri incarichi extra?  E chi se ne frega? O ancora, il referendum del 2009 sulle pluricandidature: ben tre quesiti per impedire che alle elezioni le liste si colleghino fra loro per ottenere il premio di maggioranza oppure che i candidati possano presentarsi in più di un collegio.  E sono questi i problemi che affliggono l’Italia?  I referendum sono un inutile sperpero di denaro pubblico. Quando i proponenti vogliono proprio farli passare, li indicono confermativi e non abrogativi, come appunto quello del 2001, ossia che non c’è bisogno del quorum. Pensiamo alle ultime ardimentose imprese degli incontinenti referendari, come il referendum sulle trivelle, dell’aprile 2016, o quello costituzionale voluto dal Governo Renzi del dicembre 2016. Bocciati!  Quelli di domenica invece hanno raggiunto il quorum e sono stati un successo.  E allora, in seguito a questo risultato, la Lega e certa stampa di destra cantano vittoria, i cori degli Osanna si levano verso il cielo, a dispetto del Pd, o buona parte di esso, e dei partiti dell’estrema sinistra, che hanno osteggiato il referendum. Ma che cosa hanno da festeggiare i giubilanti Maroni e Zaia? I due governatori dovranno andare a Roma a contrattare con il Governo Gentiloni. Compito molto difficile, dati anche i tempi stretti prima delle elezioni del 2018. Ma in ogni caso, quella delle regioni ad autonomia differenziata è una via già tracciata dalla Costituzione al terzo comma dell’art.116, e infatti questa strada della negoziazione diretta ha imboccato la Regione Emilia Romagna. Non potevano fare la stessa cosa Veneto e Lombardia? Ora Berlusconi, quello del conflitto di interessi, del caso Mills, di Dell’Utri e Previti, e con lui Forza Italia, cavalca il risultato elettorale, e se alla vigilia del voto si dimostrava tiepido, quasi super partes, adesso, visto il plebiscito, si affretta ad intitolarsi la vittoria e anzi a rilanciare, affermando che il referendum federalista deve essere allargato anche alle altre regioni.  È la logica di questo federalismo, secondo me, ad essere sbagliata. Autorevoli studiosi rafforzano la mia opinione. Trattenere una parte del gettito fiscale sui territori del Nord è una rivendicazione meschina, antistorica, egoista, sebbene nasca da un malcontento diffuso che va, esso sì, dal nord al sud del Paese. L’assunto è che lo Stato ha dimostrato di non sapere utilizzare in maniera virtuosa le risorse che entrano dal fisco. Vero. In pratica, dove vanno le tasse che io pago, è la domanda del contribuente, se poi non ho servizi adeguati? Allora non pago, evado, e vaffanculo ai ladroni romani! Inoltre, se il nord produce di più da sempre, perché non può godere maggiormente dei frutti del proprio lavoro e deve invece spartirli con il sud parassita e nullafacente? Per quale motivo le risorse devono essere dilapidate a danno del nord virtuoso e a vantaggio del sud pachiderma? Tutto vero. La rabbia dei settentrionali è più che comprensibile. Ma la classe politica, che è il vero cancro del Paese, cosa fa? Invece di impegnarsi per rilanciare il Sud, per una redistribuzione equa delle risorse, per far valere il peso dello Stato, di uno Stato unitario, centrale, forte, che pensa e ragiona con la testa e non con la pancia, avalla le spinte populistiche e sovversive e cavalca il malcontento del pueblo per fini elettorali. Lo Stato è uno solo ed è come un padre, o una madre (sennò si offende la Boldrini), che si dovrebbe comportare equamente con i propri figli. Che cosa fa una madre di fronte a due pargoli che chiedono da mangiare?  Ne sfama uno e lascia l’altro a digiuno, oppure dà da mangiare ad entrambi?  Le richieste dei referendari sono assurde. Se già in Italia soffriamo di un enorme gap fra il nord e il sud del Paese, dovremmo aumentare ancor di più questa distanza? Il Nord diverrebbe sempre più ricco ed il Sud ancor più arretrato. Forse questo andrebbe bene in un’ottica del tutto velleitaria per alcuni razzisti mangiapolenta, ma per il Paese non sarebbe una botta di salute. E in ogni caso, per accelerare davvero la cosiddetta devolution, occorrerebbe un nuovo referendum (ohimmè), stavolta nazionale, perché si tratterebbe di una riforma costituzionale, cioè dovrebbero pronunciarsi tutti, polentoni e terroni. Invero le regioni del Nord non chiedono privilegi ma diritti, quelli che sono stati calpestati da sempre. Essi possono essere concessi attraverso la via diplomatica, con la mediazione politica, se la politica assolvesse il compito cui è stata chiamata. Invece, gli agitprop leghisti cavalcano la tigre dell’insurrezione referendaria. “E io pago!” Paghiamo tutti noi, anche per i tablet! Ma si può?

Ora, se la massiccia partecipazione al referendum viene intesa come un forte segnale che ha voluto dare il popolo al Governo di Roma perché si muova ad uscire dal pantano in cui sguazza la politica politicante, indipendentemente dal merito del referendum stesso, e se questa era l’intenzione dei proponenti, ossia di dare una scossa ad un establishment troppo schiacciato sulla difesa dello status quo, come sostengono i giornali di destra, allora andrebbe anche bene; anzi, andrebbe appoggiato e condiviso. Ma fuori dal fattore ribellista, movimentista, e non suffragata da una buona causa, la tornata elettorale di domenica scorsa rischia di essere un buco nell’acqua, l’acqua putrida di quel pantano di cui sopra. A che cosa serve?  Non se ne può più di questi masanielli alla Puigdemon che combattono per l’autonomia. È’ una visione del tutto miope quella di chi si batte per le piccole patrie.  La Spagna è un esempio in negativo di quanto potrebbe accadere anche in Italia. Se si concede l’autonomia alla Catalogna, poi che si fa con i Baschi? La loro lotta per l’autonomia è ancora più antica di quella catalana. E poi, che dire della Scozia, in Gran Bretagna? Anche la Scozia è agitata da fermenti separatisti da tempo immemore. E se si separa la Scozia che cosa farebbe, di grazia, il Galles? E l’Irlanda del Nord? E che dire della Corsica, che vorrebbe staccarsi dalla Francia?  Ma sì, ridisegniamo la carta geografica d’Europa, torniamo al Congresso di Vienna! Gesù, Giuseppe e Maria!

Riprendendo le cose di casa nostra, ora le manovre all’interno del centro-destra in vista delle elezioni politiche subiranno una accelerata, Salvini a maggior ragione rivendicherà la candidatura a Premier per la sua coalizione. Ma Berlusconi, quello della Bossi-Fini, l’amico dei potenti del mondo, il delinquente abituale, non si farà certo mettere nel sacco dalla giovane camicia verde. E Giorgia Meloni, che poi non era nemmeno favorevole al referendum autonomista, non starà certo a reggere il moccolo a Sua Emittenza Berlusca e al celodurista Salvini. Che Babele, questo paese dei campanili e dei referendum!

Bongo bongo

Così definivano gli immigrati africani, ed anche con epiteti più grevi, alcuni importanti esponenti della Lega Nord fino a qualche tempo fa. Il fenomeno dell’immigrazione è un grande business in Italia e non solo per le cooperative di accoglienza che ne traggono lauti guadagni, ma anche per le forze politiche che cavalcano l’onda del malcontento popolare per un tornaconto elettorale, parliamo dunque delle destre che strumentalizzano e avallano il razzismo, e per le forze moderate di centro sinistra e per le sinistre che sono per l’accoglienza e l’ecumenismo, facendo in parte propria la lezione della Chiesa e di Papa Francesco. Un business inoltre, l’immigrazione, per le trasmissioni televisive di intrattenimento politico e per i giornali più oltranzisti come “Libero”, “Il Giornale” e “Il tempo”, che conducono una campagna di tolleranza zero nei confronti degli immigrati, e di converso per quelli più democratici come “Avvenire”, che spingono per l’integrazione e la carità cristiana. Ma anche, verbi gratia, per uno scemo come Povia, che può costruire una pessima canzone, “Immigrazia”, ed ottenere un quarto d’ora di celebrità grazie alle violente polemiche che ne scaturiscono. Povia, cantante fallito che ormai ha deciso di riciclarsi come menestrello della estrema destra, nella recondita speranza di ottenerne una qualche rendita di posizione, magari alle prossime politiche, è torrenziale, riempie i suoi post su facebook di parole che legge perché magari scritte da altri, senza prender fiato, con un sincopato e incalzante ritmo, che se trasferito in musica avrebbe più successo del becero pop che invece si ostina a fare. Tenendo fermo che sempre di trash musicale si tratta. Ma il poco ispirato Povia è da condannare non tanto per i concetti che esprime nella canzone, quanto per l’orrenda falsa rima “che per mandare avanti il pil vogliono i nuovi schiavi qui”. Un affare, l’immigrazione, anche per Forza Nuova e Casa Pound perché questi temi da sempre sono il loro cavallo di battaglia. I movimenti sociali di base infatti, che non hanno rappresentanza parlamentare, devono sfruttare al massimo l’onda mediatica di certi fenomeni per avere attenzione, e far più casino possibile, perché così la pubblicità è assicurata e gratis.  Chi non trae guadagni dall’immigrazione è la stragrande maggioranza della popolazione italiana. Per noi, il fenomeno dell’immigrazione non è un affare, una mucca da mungere, come per le comunità di accoglienza, ma è solo un problema, un grande interrogativo che interpella le nostre coscienze.

Paolo Vincenti, 26 ottobre 2017