di Marcello Buttazzo –

Su una terra delicata di confine come il “fine vita” occorre più che mai essere cauti. Le contrapposizioni bipolari non giovano a definire un terreno condiviso di conoscenza, di consapevolezza. La politica, di certo, ha il dovere di normare una questione eticamente sensibile dirimente. L’etica laica e quella tradizionale, molto fossilizzata e arroccata sui suoi principi assoluti, irreversibili, fisiologicamente confliggono, sono terreno di scontro. Epperò, non dobbiamo dimenticare che lo Stato è laico e liberale, per definizione, e pertanto non può piegarsi a smanie confessionali. Da tempo la Corte Costituzionale ha sancito che i parlamentari della Repubblica devono esprimersi e legiferare sul “fine vita”. Inoltre, nel 2019, la Corte Costituzionale con una sentenza ha dato il via libera ai cittadini di poter chiedere talvolta l’accesso al suicidio medicalmente assistito, dopo rigorosi controlli medici ed etici, dopo pronunciamento di appositi comitati. Un percorso complesso. Ultimamente, in alcune regioni italiane si sta esaminando e discutendo una proposta di legge popolare, con firme raccolte dall’associazione radicale Luca Coscioni, per tentare di regolamentare il “fine vita”. I radicali storicamente sono molto attenti a queste tematiche bioetiche. L’associazione Coscioni, fin dalla sua fondazione, nel 2002, per iniziativa soprattutto di Marco Pannella e dell’ex maratoneta ed economista Luca Coscioni, colpito dalla sclerosi laterale amiotrofica, s’è battuta per la libertà di ricerca scientifica, per tutelare le esigenze, i bisogni delle persone malate, per la dignità dell’esistenza umana. I radicali hanno saputo sempre coinvolgere la cittadinanza. Personalmente, però, ritengo da laico che probabilmente una deregulation, una frammentazione regionale, su una questione così fragile sia da evitare. Non ci può essere una disomogeneità di vedute, quando si parla della vita, della morte. Non è un caso che nel Veneto di Zaia (peraltro favorevole al suicidio medicalmente assistito) la legge non sia passata per un voto. E anche nell’Emilia Romagna di Bonaccini, le opposizioni di centrodestra e il fronte trasversale dei cattolici sono pronti per il “no”. La via maestra da seguire è una sola: quella parlamentare. Solo una normativa nazionale, unica e valida per tutte le regioni, può oltrepassare molte controversie. Parimenti, comprendiamo pienamente che con questa maggioranza di centrodestra, per ovvi motivi, nessuna normativa sul “fine vita” sarà possibile. Una posizione misericordiosa, seppur contraria a qualsiasi legge sulla “dolce morte”, la esprime monsignor Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, che ha posto l’attenzione sulla necessità di garantire un livello alto di cure, di scongiurare l’accanimento terapeutico, di assicurare un’appropriata terapia del dolore, compresa la sedazione palliativa. Il cardinale Zuppi s’interroga: “Come possiamo gioire del diritto alla morte?” Nessuna gioia, nessuna ebbrezza di morire, caro monsignore. Per intanto, in certuni casi di sofferenza fisica e spirituale, perfino le cure palliative possono essere inefficaci. In uno Stato laico e liberale, il soggetto deve avere a suo appannaggio la libertà di scelta e l’autonomia morale. Le donne e gli uomini hanno diritto alla vita, senz’altro. Ma a una vita dignitosa. In alcuni casi estremi, i cittadini, al cospetto di tribolazioni insostenibili, dovrebbero avere il diritto di staccare o farsi staccare la spina.

Marcello Buttazzo