di Sofia Racco e Stefano Minisgallo –

Monica Vitti ha attraversato, lasciando il segno, una parte importante della storia della cinematografia italiana. Si presenta qui una riflessione, seppur parziale, su come l’attrice romana sia stata in grado di passare dai ruoli che per primi la hanno consegnata alla storia, sotto la regia di Antonioni, fino a diventare il volto di riferimento, femminile e non solo, della commedia.
L’affermazione di nuove forme cinematografiche negli anni ’60 investe in pieno anche il discorso attoriale. Nel momento stesso in cui viene inserito il testo cinematografico all’interno di una nuova dimensione segnica, che supera quanto fatto fino ad allora, si richiede a chi recita di assumere una forma nuova. Propulsore di questo cambiamento è stato, in primo luogo, Jean Luc Godard che fin dal primo lungometraggio, Fino all’ultimo respiro propone una concezione nuova dell’interpretazione, che nel volume Nouvelle Vague Michel Marie definisce come un processo che trasforma il personaggio in un ‘portaparola’.

Anche nella cinematografia italiana si assiste all’affermazione di nuove forme recitative e di autori e autrici che reinterpretano il concetto di personaggio. La necessità di raccontare nuove tematiche influisce in questo processo e vede tra i principali esponenti Michelangelo Antonioni. Si salda in questo periodo il legame inscindibile tra il regista ferrarese e l’attrice che ha meglio rappresentato questo nuovo corso: Monica Vitti. La ‘tetralogia dell’incomunicabilità’, di cui Vitti rappresenta il perno fondamentale attraverso il suo coinvolgimento attivo nel processo artistico e la sua stessa interpretazione, racconta la confusione di un mondo in profondo mutamento che determina una crisi profonda dell’individuo e delle relazioni. Le persone diventano oggetti che si confondono nell’ambiente circostante, che diventa parte dominante della narrazione filmica, e in cui i contorni tra persone e cose si fanno sempre meno distinguibili.

Vitti diventa il volto per eccellenza di questo rinnovamento stilistico e tematico, interprete magistrale dell’incomunicabilità, dell’alienazione e della nevrosi che ne consegue. Attraverso la sua performance riesce a rendere la complessità e l’inquietudine esistenziale di personaggi femminili che vivono la lacerazione tra la dimensione umana interiore e un mondo esterno sempre più disumanizzante. Con la sua presenza porta sullo schermo un modello femminile diverso rispetto a quelli precedenti, caratterizzato proprio dalla sua spiccata modernità e non convenzionalità e che in virtù di queste caratteristiche riesce a incarnare la modernità dei temi messi in scena da Antonioni.

La novità delle tematiche trova un riscontro anche nelle modalità inedite di rappresentazione dei personaggi nello spazio filmico. L’attrice dà vita a una serie di personaggi la cui complessità è resa attraverso un’interpretazione che esprime in maniera sottile e misurata il legame indissolubile tra dimensione emotiva e atto corporeo, attraverso un impiego del corpo sulla scena che rende simultaneamente la trasformazione del corpo in oggetto e il tentativo di colmare il vuoto in cui si muovono i personaggi attraverso la fusione con l’ambiente e gli oggetti circostanti. In questo modo si crea un doppio binario di significati in cui l’oggetto è considerato sia nella sua concezione moderna in quanto veicolo ed espressione di alienazione che in un’accezione profondamente arcaica che ne contempla la dimensione emotiva. Quest’ultima tipologia di legame è fortemente presente nell’esperienza personale di Vitti e per certi aspetti contrasta l’alienazione antonioniana, da cui a tratti prende le distanze, come in questo passaggio del suo libro Il letto è una rosa (1998): “Negli anni Sessanta, con Michelangelo Antonioni, ho ispirato “l’alienazione”, che è quanto di più lontano ci sia da me. Almeno spero. Io sono legata a tutto, mi sento di far parte di una strada, di un bacio, di un saluto“.

Attraverso questa mescolanza tra vissuto personale e atto creativo Vitti può rappresentare efficacemente il contrasto tra l’aridità del mondo circostante e il tumulto interiore dei personaggi che lo abitano, che tentano di ribellarsi attraverso diversi tipi di fuga che si rivelano perlopiù fallimentari facendo ripiombare i soggetti nel vuoto.

Altro elemento chiave dell’iconicità di Vitti nei panni dei personaggi della tetralogia dell’incomunicabilità risiede nel suo sguardo, valorizzato dallo sguardo contemplativo della camera e che si fa portavoce delle incertezze, delle fragilità e delle insoddisfazioni dei personaggi a cui dà vita sullo schermo, dalla Claudia de L’avventura alla Vittoria de L’eclissi fino alla nevrosi di Giuliana in Deserto Rosso. L’attrice si trova così a interpretare nei quattro film dei ruoli che posseggono determinati elementi di continuità, ma che al tempo stesso si danno per differenza. L’Avventura mette in scena una relazione nata in maniera quasi casuale, tra due personaggi che vengono uniti da una esperienza di perdita e che passata l’ondata della passione appena iniziata si trovano a ricalcare gli elementi di difficoltà già esperiti dall’uomo nella precedente relazione. I temi si reiterano nel corso degli altri film ma vengono raccontati secondo prospettive differenti, per raggiungere l’apice della assenza comunicativa in Deserto Rosso. È proprio in questo ultimo film dei quattro che Vitti mette in scena il personaggio più stratificato e complesso, ma anche quello meno verboso rispetto agli altri.

Ma per comprendere appieno lo statuto iconico dell’attrice è necessario non limitarsi al sodalizio con Antonioni, ma tracciare un quadro complessivo dell’intero percorso artistico di Vitti che ne evidenzi la straordinaria versatilità. Questo statuto, infatti, non è dato solamente dalle rappresentazioni delle figure femminili rivoluzionarie del cinema del regista ferrarese, ma anche e soprattutto dalla capacità di reinventarsi e di declinare le sue doti interpretative in ambiti artistici lontani e quasi inconciliabili con i suoi esordi cinematografici. La grande fase successiva del suo percorso artistico è infatti quella della commedia all’italiana, in cui l’attrice si inserisce portando in scena personaggi che mantengono la stessa carica innovatrice, stavolta veicolata attraverso procedimenti comici.

Percorso che va dal cinema d’autore alla commedia, una filmografia le cui componenti in apparente opposizione si inseriscono in una dialettica di complementarità e come parte integrante e coesa di un percorso artistico e personale di continua ridefinizione dei canoni e di ricerca psicologica minuziosa attuati attraverso l’arte recitativa.

Il punto di svolta in chiave comica è La ragazza con la pistola (1968) di Mario Monicelli. Vitti approda a questo film dopo aver preso parte a vari lavori una volta conclusa la collaborazione con Antonioni, altri progetti in cui aveva già dimostrato la sua versatilità interpretativa come in Modesty Blaise (1966). L’arrivo alla commedia – che rappresenta come già detto un punto cruciale della carriera dell’attrice – si concretizza, quindi, con la collaborazione con Mario Monicelli, regista già affermato e in grado di rappresentare adottando una chiave ironica i cambiamenti che investivano la società. Se già nelle precedenti occasioni Vitti aveva dimostrato la sua indiscutibile capacità, con la commedia si assiste ad un vero e proprio ribaltamento di prospettiva nella messa in scena. Fino ad allora le attrici nelle commedie non assumevano il ruolo che lei assume e che da quel momento in poi caratterizzerà il prosieguo della sua carriera.

Da quel momento Vitti, pur non abbandonando completamente il filone drammatico, si afferma a tutti gli effetti come principale protagonista della commedia italiana. Dopo aver realizzato La femme écarlate di Jean Valère, inizia un sodalizio artistico proficuo con Alberto Sordi, col quale nel 1969 realizza Amore mio aiutami. Si tratta di un film che per certi versi riprende, seppur sotto una prospettiva del tutto differente, i temi della difficoltà delle relazioni coniugali e familiari, le incomprensioni e i soprusi che si possono scatenare in tale contesto che l’attrice aveva già affrontato con Antonioni qualche anno prima.

A proposito di Antonioni e delle differenze tra gli esordi cinematografici dell’attrice in un terreno così apparentemente lontano da quello comico, queste parole di Vitti stessa evidenziano il connubio tra comico e drammatico che costituisce parte integrante della sua versatilità: “Antonioni riteneva il mio viso drammatico, ma i comici sono drammatici. Guardate Petrolini o Totò, e tutta la commedia dell’arte italiana: è la più naturale per me”. Le parole dell’attrice, oltre ad evidenziare la naturalezza (evidente nella grande padronanza dei ruoli) con cui si approccia al mondo della commedia italiana, rappresentano con precisione un lato rilevante del suo intendere l’atto recitativo: nelle sue interpretazioni, e questo aspetto è evidente soprattutto nei suoi ruoli nella commedia, comico e drammatico non si presentano come due sfere inconciliabili, ma come due aspetti diversi e complementari in continuo dialogo tra di loro, due serbatoi da cui attingere per arricchire di sfumature personaggi che, privati dei frutti di questa mescolanza di generi, risulterebbero piatti, privi di spessore, una serie di maschere indistinguibili. Invece Vitti prende queste maschere e le potenzia, le rinnova: un’operazione ancora più significativa perché praticata nel contesto della commedia all’italiana di metà anni Sessanta, in cui era assente una figura come quella di Vitti, e in cui erano assenti personaggi femminili così incisivi come Assunta Patanè, l’Adelaide di Dramma della gelosia o la Dea Dani di Polvere di stelle. Personaggi che non scadono nel macchiettistico bensì dotati di una loro spiccata umanità (nelle virtù, ma soprattutto nei vizi) e di spessore psicologico, resi da Vitti grazie alla sua profonda consapevolezza dei suoi strumenti recitativi e alla sua capacità di veicolare la propria sensibilità all’interno di una gamma diversificata di personaggi, plasmandoli e rendendoli unici.

A titolo esemplificativo di quanto detto, riprendiamo La ragazza con la pistola: la figura di Assunta Patanè è una figura femminile inedita nel panorama della commedia all’italiana. La novità risiede sia nell’essenza del personaggio in quanto figura su cui convergono in maniera estremamente visibile le trasformazioni che stavano attraversando la società italiana, sia nei procedimenti interpretativi adottati da Vitti nella rappresentazione di Assunta. Il percorso di Assunta nel corso del film conosce gli stessi sconvolgimenti che stava conoscendo l’Italia di quel periodo, e queste trasformazioni vengono rese nel suo personaggio sia attraverso il cambiamento tangibile nella sua apparenza fisica sia attraverso la sua evoluzione interiore attraverso cui viene rappresentato il rovesciamento del codice di valori antecedente che viene sostituito dall’introduzione di nuovi modelli sociali, come quelli che si affermano nell’Italia della fine degli anni Sessanta.

Nel 1970 arriva poi uno dei film più ricordati non solo della sua carriera ma nella cinematografia italiana, è infatti l’anno di Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) che vede Vitti recitare con Mastroianni e Giancarlo Giannini diretti da Ettore Scola. Ambientato in una Roma nella fine del boom economico, attraversata dalle lotte operaie, la vicenda vede come protagonisti principali la fioraia Adelaide, interpretata da Vitti, divisa tra i sentimenti per il muratore Oreste (Mastroianni) e il pizzaiolo Nello (Giannini). Anche in questa pellicola si affrontano le trasformazioni collettive che attraversano il panorama storico del periodo e la loro influenza sulle relazioni individuali, analizzate e rappresentate attraverso la lente deformante dell’ironia e del grottesco.

La carriera comica di Monica Vitti prosegue con successo anche nel corso degli anni Settanta con il consolidamento del sodalizio con Sordi in Polvere di stelle (1973) e commedie come Ninì Tirabusciò. La donna che inventò la mossa (1970), Noi donne siamo fatte così (1971) e L’anatra all’arancia (1975) di Luciano Salce, con cui aveva già collaborato per l’adattamento cinematografico del testo teatrale di Natalia Ginzburg Ti ho sposato per allegria (1967).

In questo periodo spiccano anche titoli come La Tosca (1973) di Luigi Magni, un film musicale in cui Vitti recita con Gigi Proietti. Tratto liberamente dall’opera di Victorien Sardou e ambientato nella Roma papale del 1800, il film vede nel ruolo di antagonista principale Vittorio Gassman. Sebbene alcuni critici abbiano rilevato che la commistione tra l’inizio – improntato alla leggerezza e la fine del film – dove invece si assiste a un cambio di registro drammatico – sembra non essere perfettamente riuscito secondo gli intenti del regista, va dato atto che l’opera ha acquisito una forte connotazione nel corso del tempo, grazie tanto a Magni quanto al cast nella riuscita. È ancora una volta Vitti a divenire il fulcro di questa narrazione, laddove all’inizio sembra muoversi come oggetto del desiderio tra Proietti e Gassman, diviene via via il vero e proprio soggetto agente che più di ogni altri prova a sovvertire il corso della situazione. In questo risiede un altro degli elementi della straordinarietà che Monica Vitti ha rappresentato: la capacità di sottrarsi a una dimensione reificata.

Come fatto notare da Laura Mulvey in Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975) era (è) prassi che la donna nel cinema sia in sostanza l’oggetto dello sguardo altrui, soprattutto di quello maschile, tanto di quello attoriale che di quello dello spettatore, che nell’attore si proietta. Anche nei film nei quali sembra venire fuori questa dimensione, prevalente infatti in molti film, la capacità interpretativa dell’attrice romana opera quel passaggio da oggetto dello sguardo a soggetto. Il filone della commedia era, in questo senso, una sorta di primus inter pares: nella dimensione in cui molto spesso le donne non erano presenti e quando lo erano assumevano quella dimensione di oggetto del desiderio, ma quasi mai quella di soggetto in grado di innescare i meccanismi stessi della commedia.

Questo passaggio a soggetto è uno degli elementi centrali che rendono Vitti un’icona: espressione esemplare dei profondi mutamenti che hanno investito l’individuo, nello specifico quello femminile, introduce nei personaggi che porta sullo schermo e nelle modalità con cui li rappresenta la consapevolezza di un’autorialità interna all’atto recitativo di cui difficilmente troviamo riscontro prima di lei. A partire dai personaggi femminili di Antonioni, alla cui genesi, come si è già detto, Vitti ha contribuito attivamente anche attraverso il confluire di esperienze personali nella loro costruzione, fino ai personaggi della commedia, ulteriore emanazione di questa commistione tra arte e vita e della profonda consapevolezza dei diversi aspetti che costituiscono il lavoro attoriale. Nella figura di Vitti i codici dei diversi generi in cui si è cimentata e in cui ha eccelso hanno perso la loro rigidità per trovare una forma di complementarità. I confini tra il comico e il drammatico si confondono: da questa rottura degli schemi si crea un territorio indefinito e di possibilità, da quest’indefinitezza nasce un’innovazione che ha lasciato una profonda impronta nel cinema italiano, e da quest’innovazione nasce la grandezza di Monica Vitti.

Sofia Racco – Stefano Minisgallo